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FIUME SERISSIMO

Attraverso la provincia bergamasca prima e durante lo scoppio della pandemia, una storia sentimentale.

In psicologia c’è una bella definizione di identità che la descrive come il senso di coerenza che caratterizza la storia individuale [1]. Istintivamente e basandomi sulla mia esperienza penso che, nei contesti provinciali, la coerenza sia spesso definita dai posti. Gli scenari nei quali le storie accadono sono pochi e per me sono stati l’appartamento nel quale abitavo, il cortile condiviso dell’edificio sul quale poi si sono affacciati altri edifici simili, le scuole, l’ospedale, le poche vie che univano questi luoghi e le scorciatoie trovate o tracciate. Questi posti, quelli che effettivamente definiscono una cittadina, mi erano tanto familiari da sembrarmi filiali dell’appartamento, il resto era sconosciuto.

L’emergenza pandemica verificatasi nella bergamasca a marzo 2020, in particolare ad Alzano, Nembro e lungo il corso del fiume Serio, mi ha fatto ripensare a quella familiarità. Gli eventi personali a cui mi riferisco, soprattutto quelli che riguardano lo scoppio dell’epidemia, non sono atipici, fanno al contrario già parte di una memoria condivisa, seppur impressa in alcuni luoghi più energicamente che in altri.

Mi sono trasferito a Seriate nell’agosto del 1985, avevo tre mesi e con me sulla panda bianca squadrata c’era mio fratello Ivan ei miei genitori Annamaria e Gianfranco. Dopo aver parcheggiato fuori dal condominio rosa ancora in costruzione, siamo saliti nel nuovo appartamento più ampio e moderno del precedente. Costruito su incarico di una cooperativa sociale e poi ceduto a costi agevolati ad operaiз, quel condominio doveva ospitare all’incirca un’ottantina di famiglie tecnicamente mantenendo il terreno di proprietà comunale fino al 2084. La chiosa del suo assetto proletario era custodita nel nome dato all’edificio: “MAO”, un acronimo sfrontato di Molti Appartamenti Operai. Il nome appare sui contratti originali e sui progetti di costruzione, ma l’ho raramente sentito utilizzare dallз inquilinз. MAO è un edificio popolare dai lineamenti sovietici, costruito nel 1985 all’inizio di un’area di campi che dista circa 400 metri dalla riva del Serio e che entro un decennio diventerà un nucleo residenziale a media densità. Negli anni ottanta il suo aspetto razionalista proponeva alle giovani coppie un’immagine ristrutturata del consueto modello di famiglia nel quale erano state cresciute. Quella nuova architettura rassicurante, seppur non finita, sembrava essere lì da sempre, sostenuta da ampi colonnati di cemento armato verde alti una dozzina di metri che crescendo mi sarebbero sembrati un tempio al futuro. Affacciata sul cortile comunitario, una porta anonima introduceva alla sezione comunale del PCI, l’allora solido partito comunista fondato da Gramsci nel 1921. Quella porta era coperta da manifesti elettorali che venivano periodicamente sostituiti: alcuni si scollavano a causa delle nostre pallonate, altri finivano semistrappati da passanti annoiatз o sostenitorз della DC. Presto, prima che io iniziassi la scuola dell’obbligo, quelle stampe con la grande falce e martello al centro vennero sostituite con altre dai simboli meno sinistri e più in linea con le prospettive del proletariato moderno al quale il boom economico già prometteva tecnologie, abbigliamento firmato ed un tenore di vita fino ad allora riservato alle classi borghesi. Promesse che solidificavano la dottrina individualista che rende l’invidia il canone di misurazione della qualità delle vite. Sui loghi di partito, apparsi sui poster dopo il 1991, anno di scioglimento del PCI, falce e martello si restringono sotterrate sotto le radici della quercia simbolo del PDS, per poi sparire del tutto alcuni anni dopo nel logo dei nuovi DS. La quercia si è poi trasformata nell’Ulivo rasserenando l’elettorato cattolico, anche quello ridotto poi a bonsai nella parte bassa del logo dell’attuale PD.

Questa lenta zoomata a ritroso nella quale i simboli della sinistra si allontanano e restringono fino a svanire galleggiavo più o meno ignaro, del quale i miei genitori erano invece probabilmente più consapevoli. Annamaria infermiera nel reparto di patologia neonatale all’ospedale Bolognini di Seriate, Gianfranco operaio generico nella stessa struttura. Lui da sempre comunista, orfano da bambino, parla malvolentieri del suo passato ed è cresciuto superando il dopoguerra con pochi soldi e pochissima istruzione. Una volta, senza preavviso, mi ha raccontato di quando nella mensa dell’ospedale, durante la pausa pranzo, ha fermato un infermiera e sventolando la tessera del partito davanti agli occhi, le ha chiesto:

“Ti fa paura questa?”

Annamaria, nata in una casa tradizionalista che espressamente ha proibito alle figlie di studiare, aveva 9 anni meno di lui, ed il corso di infermieristica e è stato il risultato della sua lotta contro il potere decisionale del padre, prima di allora mai messo in discussione. Riservata, protettiva ed introversa la vedo mentre risponde importunata oltre le dita che reggono il tesserino:

“No. Ma figurati.”

E lui:

“comunque io il partito non me lo sposo. Però magari mi sposo te.”

Li immagino rivolti ognuno verso una delle facce di quella tessera, con da un lato l’incanto e dall’altro la diffidenza che l’ideologia portava nellз lavoratorз nella tesa seconda metà degli anni 70.

Quarantacinque anni dopo quella scena, all’inizio di marzo 2020, Annamaria esce da una settimana di influenza, lamenta di non sentire odori e sapori ma non ci fa troppo caso. Fa la spola tra l’appartamento in MAO e la casa di mio nonno/suo padre, assistendo sia lui che il marito Gianfranco, entrambi con febbre e affanni. Il 10 marzo il padre di Annamaria, sano fino a pochi giorni prima, finisce in arresto cardiaco; lз paramedicз chiamatз provano a rianimarlo ma ne dichiarano il decesso poco dopo. Si parla di Covid-19, ma siccome i reagenti per elaborare i tamponi scarseggiano in quelle prime settimane, non viene fatto alcun test per confermare la diagnosi e lз parenti vengono invitatз ad isolarsi volontariamente. Il nonno, ex metalmeccanico alla grande fabbrica di quadri elettrici Magrini, tanto dedito alla filiera di montaggio da guadagnarsi il titolo di Maestro del Lavoro, viene cremato in Piemonte a 160 km da lì - respinto dai forni provinciali che non possono prendere in carico altri cadaveri. Forse c’era anche lui nelle fotografie pubblicate il 18 marzo, quelle delle file di camion militari che escono dalla città portando via le bare.

In quei giorni molte famiglie del quartiere stanno subendo dei lutti improvvisi, dall’edificio MAO e dagli altri circostanti vengono chiamate ambulanze che non
arrivano; in ogni ospedale si istituiscono reparti Covid che già straripano di pazienti e, di lì a due giorni, non ci sarà un solo letto di terapia intensiva libero in tutta la provincia. Forse anche a causa della paura provocata dal decesso del suocero e dalle notizie sempre più frequenti che riguardano la zona, quella stessa notte Gianfranco si aggrava. Nemmeno l’ambulanza chiamata per lui arriva: dalla centrale operativa avvisano che in quel giorno non ci sono più veicoli disponibili e che avrebbero richiamato dopo qualche ora per verificare lo stato del paziente. Annamaria, non volendo o potendo più aspettare, decide di portarlo autonomamente al Bolognini. È quindi l’11 marzo che i due, ormai pensionati, tornano insieme all’edificio nel quale si sono conosciuti. Al volante della Renault Modus, con la portiera che ho ammaccato uscendo da un parcheggio, Annamaria si sposta sulla carreggiata che conduce al pronto soccorso, verso la serie dei lampeggianti blu che provengono da una fila ordinata di ambulanze in attesa di scaricare lз pazienti. Gianfranco intanto è semisdraiato sul sedile posteriore che si sente annegare e piange; sarebbe una scena stramba, ma in quel momento il pronto soccorso è già ricolmo di persone adulte che piangono. Viene sistemato su uno degli ultimi lettini liberi, chi verrà dopo finisce su materassi a terra. La diagnosi per tuttз è di polmonite interstiziale da Covid-19, e il tasso di mortalità in quei primi giorni a Bergamo tocca il 30%. Annamaria viene allontanata e le viene imposto di tornare al suo uno-dei-molti-appartamenti-operai e di isolarsi per 14 giorni.

Trasferito in un altro ospedale, in un paese più a valle ma lungo lo stesso fiume, tre settimane dopo Gianfranco negativizza il virus e viene dimesso, la sua
capienza polmonare è diminuita e, a un anno e mezzo di distanza, si sta ora indagando sulle conseguenze da long covid sulla sua capacità cognitiva.
Uscitз dalla fase acuta dell’emergenza inizia per moltз un itinerario a ritroso alla ricerca di cause e responsabilità. Gianfranco ha quasi certamente contratto
il virus la mattina del 18 febbraio all’ospedale Pesenti Fornaroli di Alzano Lombardo dove è andato per un normale esame ecodoppler. Quella struttura è
stata il primo focolaio dell’impennata incontrollata di contagi avvenuta nelle settimane a seguire e si trova ora al centro delle indagini avviate sulle responsabilità di gestione dell’emergenza. Il 23 febbraio al Pesenti Fornaroli vengono confermati due casi di coronavirus ma, mentre a Codogno e a Vo’ è bastato un tasso di positività più basso perché venisse isolata la zona, l’ospedale di Alzano ha chiuso solo per qualche ora nel pomeriggio ed ha riaperto la sera a visitatorз e pazienti. Il 28 febbraio i governi provinciali diffondevano la campagna “Bergamo non si ferma” invitando lз lombardз a non farsi spaventare dalle notizie sulla pandemia, sminuendone la portata. La prima chiusura “arancione”, quella che ha coinvolto tutta la regione, è arrivata solo l’8 marzo, due settimane dopo i primi casi - già deceduti. Perché venissero chiuse le fabbriche non essenziali sparse lungo il corso del fiume Serio si è dovuto attendere il 22. Sul modello estero delle class action alcunз parenti delle vittime, con Annamaria, hanno istituito un comitato allo scopo di aprire un’indagine contro ignotз sulle motivazioni della mancata chiusura di quella parte di valle. La mancanza di un piano pandemico aggiornato e le pressioni da parte di alcunз industriali della zona preoccupatз di perdere competitività sul mercato, sembrano aver influito sulla gestione politica.
Va considerato che lungo quel tratto del Serio che da Nembro arriva a Seriate e poi a Orio al Serio, sorgevano storicamente decine di imprese tessili, in molti
casi sostituite da multinazionali che sfruttano la vicinanza con l’aeroporto, ciascuna con centinaia di dipendenti: l’alto tasso di industrializzazione della valle ha creato migliaia di posti di lavoro per operaiз, metalmeccanicз, manovalз...

Il cliché dellз abitanti della bergamasca si fonda frequentemente sull’abnegazione verso il lavoro, ma al di fuori del mondo professionale la loro indole può apparire schiva, pragmatica e anaffettiva. È un temperamento sviluppatosi tra l’inizio delle Prealpi orobiche che delimitano il nord della provincia, ed i banchi
di nebbia che si addensano nei mesi freddi sulla bassa padana – isolando quel territorio dall’Emilia e dal centro- sud. Anche il dialetto, soprattutto verso le montagne, è carico di vocali chiuse e umlaut che musicano il temperamento locale. È su queste predisposizioni introverse che le politiche populiste hanno agito con successo negli ultimi decenni convertendo gran parte del proletariato (del PCI o della DC) in elettorз leghistз: un fenomeno avvenuto anche altrove, ma che in quelle zone è stato particolarmente efficace. In contemporanea con lo scioglimento del partito comunista l’allora Lega Lombarda, poi Lega Nord e ora Lega, che ogni anno celebra le sue origini a Pontida, non lontano da Seriate, di fronte al murale verde “padroni a casa nostra”, ha guadagnato rapidamente consensi con la discriminazione di italianз del sud, albanesi, africanз… A Seriate la Lega prende da 30 anni quasi il 70 per cento dei voti, vincendo ogni-singola-volta.

Il giorno dopo il ricovero di Gianfranco, da Roma trovo su un quotidiano una foto con la fila di ambulanze fuori da quel Bolognini che non riesco a riconoscere,
ma non vedo l’auto con lui dentro. Ho chiesto ad Annamaria se l’ospedale al quale lo ha portato quella sera conservasse qualcosa del posto nel quale si erano conosciutз. Senza fronzoli come l’architettura nella quale ha scelto di vivere per 35 anni, ha descritto: “Me lo ricordavo dai tempi del lavoro, il panorama spettrale irriconoscibile, tutto era transennato e nascosto da teli, il personale protetto da mascherine guanti e visiere. Ho dovuto lasciarlo lì, lui piangeva e sentivo altre persone piangere e lamentarsi, fuori c’erano diverse ambulanze ed auto dei carabinieri, non sapevo cosa pensare, sembrava di vivere in un film“. La descrizione non sbrodolata di quel luogo al loro arrivo, si confonde per me con l’immagine dei miei genitori nella mensa ospedaliera e con le volte che li ho sentiti lamentarsi delle condizioni di lavoro, dellз dirigenti, dellз sindacalistз, dellз colleghз; si aggiunge alla coerenza apparente delle vie che conosco molto bene nella memoria ma per nulla nella realtà - che partono dal cortile e girano accanto a quel fiume esageratamente serio fuori dal quale tutti i ricordi di tuttз quantз si parlano a caso l’uno sull’altro.

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