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LETTERA DA UN’ EX-IMPIEGATA DI UNIQLO

Sfruttamento e controllo costante nella vendita al dettaglio.

Ho studiato Fashion Design a Milano e la mia esperienza nel fast-fashion è iniziata quando mi sono trasferita a Berlino per un’offerta di lavoro non andata a buon fine. Dopo due settimane sono stata licenziata presso un piccolo studio di moda a Wedding che mi aveva assunta senza un contratto. Ho dovuto poi mettermi alla ricerca di un qualsiasi altro impiego per sopravvivere. Ho iniziato a lavorare presso un’agenzia di moda come tirocinante e dopo sei mesi di internship sono stata licenziata anche lì. Vengo da una famiglia di piccoli commercianti e non mi piaceva l’idea di lavorare in un negozio, ma a quel punto ero completamente persa, senza soldi e senza alcuna conoscenza del tedesco. 

Sono stata assunta da Uniqlo come commessa, l’unica posizione che al momento era adatta per il mio profilo, e quando ho iniziato ero molto grata per l’opportunità. Il mio ruolo non prevedeva molti contatti con il pubblico, era più come lavorare in una fabbrica, fare consegne, rifornimenti. Una delle condizioni peggiori erano i turni di lavoro: 07:00 - 16:00 oppure 13:00 - 22:00. Mi sto ancora chiedendo quale fosse il migliore per me che vivevo dall'altra parte della città e impiegavo quasi 40 minuti per raggiungere il negozio a Potsdamer Platz. Andavo in bicicletta perché era l'unico momento del giorno in cui potevo respirare. Una volta dentro il negozio era come se fossi in un'altra dimensione con un sottofondo musicale che scandiva note identiche tutti i giorni, luci disturbanti, walkie-talkie che ripetevano il tuo nome generando una sensazione di controllo costante.

Secondo le regole di Uniqlo tutto doveva essere fatto in modo veloce, dal servizio clienti al layout dei vestiti. I capi che vendevamo erano prodotti principalmente in Vietnam, Cina, Turchia, design giapponese e manodopera a poco prezzo. Anche il salario era vicino al minimo (10,50/h), ma per me andava bene considerando che ero abituata a stage non pagati. Così ho visto le mie entrate crescere esponenzialmente. Ero felice di guadagnare uno stipendio normale e mi sono ritrovata in una specie di tunnel dove lavorare sempre di più per guadagnare era il mio unico obiettivo. Quando finivo il mio turno ero troppo stanca o troppo stressata per uscire e quando finalmente avevo un giorno libero la mia creatività era inibita e alla fine non ero nemmeno in grado di rilassarmi. Mi sentivo completamente distaccato dal resto della mia vita, quella professionale per cui avevo studiato e quella sociale, ormai confinata a Uniqlo.

I miei colleghi provenivano da tutto il mondo: arabi ed europei, giovani tra i 18 e i 26 anni, molti studenti che lavoravano part time e altri che non erano riusciti ad integrarsi o trovare una posizione più soddisfacente nel mondo lavorativo. I più motivati a lavorare erano Afghani e Siriani, tutto era meglio delle situazioni da cui provenivano. L’incontro con i miei colleghi è stato uno dei motivi per cui sono riuscita a rimanere più di un anno lì. Abbiamo sviluppato una comune solidarietà, una sorta di cameratismo, contro la rigidità delle regole. Naturalmente c'era anche molta competizione e soprattutto all'inizio era difficile essere accettati nel team: eravamo abituati al riciclo delle persone. Da quanto ho capito, una delle strategie più comuni di tutti i negozi al dettaglio è quella di assumere personale prima del periodo Natalizio e licenziare poco dopo la fine delle vacanze. I nuovi commessi, erano tenuti all’oscuro di questi piani e speravano nel rinnovo del contratto. 

La promessa è che da Uniqlo è molto facile crescere nell'azienda. Dopo 3 mesi puoi fare un test di autovalutazione per essere pagato un euro in più all'ora. Fondamentalmente il tuo shop manager decide dopo l'autovalutazione se superi o meno il test. Per me è stato un incubo. Ho fallito diverse volte perché non piacevo molto al mio capo, il quale non mi dava mai abbastanza punti per passarlo. Il test era molto elementare e per me, abituata a studiare e ad avere una buona memoria in generale, era un po' ironico non riuscire a raggiungere i punti minimi.

Alla fine ho dovuto lasciare il lavoro. Ricordo di aver iniziato a soffrire di nervi ed essere esplosa in varie crisi di pianto in negozio, così il mio manager mi ha suggerito che era meglio per me non rinnovare il mio contratto. Abbiamo avuto un colloquio e non ero d'accordo nel lasciare l'azienda, perchè avevo paura di non trovare un altro impiego, non mi sentivo pronta. Alcuni giorni dopo ho scoperto che non ero più nel piano lavorativo, il mio capo ha deciso alla fine per me senza comunicarmelo ufficialmente. La mia esperienza da Uniqlo è stata la mia prima nel campo del fast fashion, ero abituata all’alta moda milanese, ma anche lì lo sfruttamento e la deumanizzazione vigono. Attualmente sono ancora disoccupato, cercando di ottenere più competenze e più motivazione per la prossima opportunità.

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