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SEMI DI UN MONDO CHE ATTENDE DI GERMINARE

È possibile coltivare i semi della convivenza e della mescolanza?

Le relazioni dell'essere umano con il cibo, l'ecosistema, i territori, le comunità che abita e le economie che crea, sono veicolati tutti da un elemento generativo per eccellenza: i semi. Questi sono materia in costante evoluzione e ridefinizione, raccontano delle storie ancestrali, definiscono il nostro presente e al contempo la loro selezione è la scelta del nostro futuro. I semi che scegliamo sono delle predizioni sulla società in cui vivremo, sul tipo di coabitazione che avremo con gli altri esseri viventi, sul modo con cui affronteremo localmente le sfide globali, oltre che su come alimentare i corpi animali addomesticati, compresi il nostro. Di fatti, la selezione dei semi è una delle forme culturali più immediate con cui interagiamo con quella che definiamo natura.

La rivoluzione neolitica è il momento storico in cui l'uomo comincia ad applicare una forma di controllo sulla natura, che si tramuta in dominazione estrattiva dopo la formulazione delle leggi di Mendel sulla trasmissione genetica. Inizia così una nuova era, facilitata da  tecnologie sempre più sofisticate ed invasive che nel tempo sfocia in un rapporto di supremazia assoluta sulla natura, che raggiunge la sua  forma parossistica con la cosiddetta “green revolution”. Secondo questa strategia di sviluppo agricolo, la produzione viene gestita attraverso l'impiego di varietà vegetali migliorate mediante selezione, combinate con fertilizzanti, fitofarmaci, acqua e altri investimenti di capitale in forma di nuovi mezzi tecnici e meccanici. 

L'approccio “green”, se da un lato ha garantito una crescita importante della produzione agricola, è una delle maggiori cause di inquinamento e di riscaldamento globale, di monopolizzazione delle risorse del pianeta, oltre ad aver procurato una grandissima perdita della biodiversità, forse in modo irrimediabile. I semi quindi, in questa nuova struttura di pensiero e d'azione, non sono più appannaggio dei contadini e degli agricoltori. Le pochissime varietà che vengono loro distribuite, attraverso un processo monopolistico e di selezione nei centri di ricerca, sono coltivate, per garantire produttività, secondo i principi dell’agrochimica, cioè con uso massiccio di erbicidi, fertilizzanti e fitofarmaci. La varietà così ottenuta, per poter entrare in commercio, deve essere registrata e iscritta ad un catalogo ufficiale che ne garantisce il conformarsi a tre criteri fondamentali: uniformità, stabilità e distinzione, quando la natura opera nella direzione opposta, cioè verso la diversificazione e l’evoluzione. Si interrompe quindi la reciprocità generazionale tra il seme e le comunità di agricoltori, in cui i semi sono selezionati, adattati, conservati e tramandati attraverso un lento processo, che consente il loro adattamento in accordo con i cambiamenti della terra, del clima del luogo e delle innovazioni introdotte dalle comunità che li coltivano.

Una delle risposte più diffuse a questa crisi ambientale e culturale di molti contadini e giovani che praticano un “ritorno alla terra”, è quello di rivolgersi al recupero dei semi che facevano parte della tradizione rurale dei vari territori. Intorno a questo ritorno c'è una retorica che usa chiamare i grani adoperati “tradizionali”, “contadini”, “locali” o genericamente “antichi”, quando in realtà quasi mai queste condizioni sono vere. Ancora più retorica, quasi reazionaria, è l’idea dei semi e delle varietà autoctone (originarie), considerando che nel corso della storia i semi e le piante originarie di specifiche geografie, hanno raggiunto i campi, gli altipiani e le pianure di tutti gli angoli della terra. Sarebbe invece interessante, proprio attraverso questi semi, celebrare questo scambio, se avvenuto in maniera pacifica, o ricordare gli eventi infausti che hanno permesso di arricchire la nostra diversità a scapito di altre civiltà. In Europa per esempio la maggioranza delle specie di piante che coltiviamo per uso alimentare provengono da molto lontano e in moltissimi casi si tratta di depredazione coloniale.

È possibile alla luce di questa complessità storica e antropologica coltivare i semi della convivenza e della mescolanza? I semi dell'inclusione e della sostenibilità? Semi che permettano la sperimentazione di modelli di condivisione, di solidarietà e alleanza tra specie umane e non umane?

Un passo importante in questa direzione arriva dalla pratica agroecologica delle popolazioni evolutive, una mescolanza di semi di moltissime varietà della stessa specie vegetale. Una tecnica proposta inizialmente negli anni anni ‘50 dall’agronomo Coit Suneson e recentemente ripresa e sviluppata dalla coppia di genetisti e scienziati Salvatore Ceccarelli e Stefania Grando.  

Dopo anni di lavoro condotto nelle stazioni sperimentali dell’ICARDA (International Center for Agricultural Research in the Dry Areas) ad Aleppo, negli anni ‘90 Ceccarelli e Grando iniziano un percorso di ricerca che mette al centro non più i grandi interessi dell’agroindustria, ma quelli degli agricoltori e contadini siriani, tunisini, marocchini, algerini, egiziani, giordani, etiopi, eritrei, yemeniti, iraniani. I due specialisti, uscendo dalle stazioni sperimentali per entrare in contatto diretto con donne e uomini che praticano agricoltura spesso di sussistenza, dove la scelta delle varietà di orzo e cereali da coltivare diventa questione capitale, attuano il miglioramento genetico partecipativo: un’alleanza tra la scienza e i bisogni reali delle popolazioni locali. 

Nel 2007, nonostante il programma riscuotesse successo sia a livello internazionale che tra le popolazioni interessate, i fondi continuavano a ridursi e gli Istituti di Ricerca a manifestare sempre più aperta ostilità per una ricerca e una pratica non collegata a scopi lucrativi. In risposta a questa crisi, Ceccarelli e Grando replicarono, mescolando i semi di 1600 incroci di orzo provenienti da tutto il mondo, dando vita alla prima popolazione evolutiva, probabilmente la più grande mai sperimentata.

Da questa mescolanza ottengono 160 kg di semi che inviarono agli agricoltori di alcuni dei paesi con cui avevano collaborato durante i programmi di miglioramento genetico, i quali avviarono le prime sperimentazioni in campo. Questa prima popolazione evolutiva è stata in seguito coltivata presso la stazione sperimentale di Aleppo e la cui diversità, racchiusa in un fazzoletto di terra, ha suscitato la curiosità di altri ricercatori consentendo la costituzione di due grandi popolazioni evolutive di grano tenero (con la progenie di 2000 incroci) e duro (con la progenie di 700 incroci). Anche queste due popolazioni, contenenti mix e tipi di semi provenienti da tutto il mondo, sono state distribuite per la riproduzione.

Nel 2011, dopo trent’anni di sperimentazione, la coppia di scienziati lascia la Siria per tornare in Europa, dopo aver inviato una piccola quantità di seme delle tre popolazioni di orzo e grano in Italia. Qui, le tre varietà cominciarono a diffondersi regionalmente, dimostrando la straordinaria capacità di questi semi di adattarsi gradualmente a diverse condizioni climatiche, a specifici terreni e alle diverse tecniche colturali ai quali sottoposti. Infatti, durante gli anni di sperimentazione si è notato che la stabilità delle produzioni e il miglior controllo delle malattie, insetti e infestanti in confronto alle varietà uniformi, rendono superfluo l’uso di pesticidi, riducendo i costi di produzione e eleggendo le popolazioni evolutive a colture ideali per l’agricoltura biologica e biodinamica.

Grazie a questo scambio continuo, le Popolazioni Evolutive ICARDA provenienti dalla Siria, hanno dato origine a tante popolazioni diverse, in relazione alla località e all’annata, dimostrando una dinamicità che rende impossibile ogni forma di controllo e di appropriazione delle ditte sementiere e la capacità biologica di rispondere eticamente alle maggiori sfide agroecologiche del presente. Questa mescolanza di semi infatti, assicura la produzione alimentare nonostante le incertezze legate al riscaldamento globale, arricchendo l'agrobiodiversità, migliorando così le caratteristiche nutrizionali dei cibi, ed infine riportando il controllo dei semi nelle mani dei contadini e agricoltori. Le popolazioni evolutive aprono anche nuovi significati in termini sociali e culturali spostando la logica dominante del controllo dell’uomo sulle sinergie naturali e abbracciando le potenzialità dell'ibridazione, della contaminazione, della circolazione e della complessità. Un simbolo, quindi, una metafora dell’accoglienza della diversità senza pregiudizi, in grado di mettere in discussione e trasformare collettivamente le strutture di potere esistenti.

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Read this piece in print in the issue 16 "Food Eats the Soul", out now!

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