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NOTE AL MARGINE DELL’INDUSTRIA DELLA MODA

Navigare il paradosso del "non tutto sembra come appare".

“In the context of late capitalism and its inequities and growing political polarization, the ideas on what luxury constitutes are rapidly shifting. Self-care is making way for a collective form of care: for creating together, performing together, learning together, regaining agency together.”
- “Press & Fold, Notes on making and doing in fashion” Issue n.1 - 2019 curated by Hanka van der Voet.

Navigando il paradosso che non tutto sembra come appare, la moda catalizza i segnali di un'epoca sintetizzandoli in una produzione materiale e immateriale. L'industria della moda rappresenta sempre di più quella prospettiva di ‘futuro’, di meridiana che scandisce il tempo, inducendo potenzialmente l'audience ad una scelta estetica che può contraddire le precedenti o allinearsi in un movimento progressivo, partendo, magari dalla rielaborazione evocativa di un periodo del passato prossimo e/o agendo tatticamente su un gap generazionale. Tuttavia essa indica sempre un apparente slancio di autonomia primaria: non te lo stiamo dicendo noi, lo stai scegliendo tu (ma la scelta non è infinita e quello che forse ci è veramente necessario potrebbe non essere offerto).

In questo senso possiamo definire il rituale delle sfilate come il tentativo più articolato del sistema chiromantico-capitalista della moda, di predizione di quello che verrà, in un meccanismo di seduzione che inizia a condizionare il gusto e la necessità di quel tipo di ‘futuro’. Le passerelle di fatti, sono diventate uno spettacolo sempre più performativo e teatrale, che si relaziona alla produzione finale effettiva in maniera del tutto simbolica (non è detto che i capi presentati nella sfilata siano poi quelli che verranno prodotti).

Senza sottovalutare l’effetto terapeutico che per molte persone ha la moda: in un momento storico in cui incidere con le proprie idee sul reale diventa sempre più complicato e trovare un equilibrio psico/fisico richiede tempo, il modo più semplice per ‘cambiare’ ed esperire un rinnovamento di cui ci si sente totalmente artefici è acquistare un capo di abbigliamento/accessorio che a volte può fungere da vero e proprio ‘calmante’ sulle nostre inquietudini esistenziali...

Ora per incidere positivamente su un’industria così complessa, che interlaccia campi così ampi, come quello della: progettazione/produzione/distribuzione/promozione/riuso/riciclo ma anche della rappresentazione e dell’imposizione di canoni estetici - in un’ottica di maggiore sostenibilità, inclusività ed equità salariale - forse si dovrebbe ripensare il sistema stesso. Bisognerebbe partire dal definire una ‘carta dei diritti del pianeta animato e inanimato’ che possa certificare e regolare tutti quei comportamenti e pratiche industriali etiche. Un esempio potrebbe essere identificare in modo chiaro i materiali del packaging per ottimizzarne il riciclo (molte catene inseriscono nelle etichette adesive del codice a barre degli elementi metallici impercettibili come sistema anti furto), in un contesto che dovrebbe comunque prevedere di decelerare la produzione almeno da parte delle grosse catene e dei gruppi del ‘lusso’. Un punto di partenza potrebbe essere porsi degli interrogativi, tra i quali questi a zig-zag:

Sarebbe utile adottare un approccio meno binario e accelerazionista al concetto di sfilata/collezioni/linee?/ Che valore ha l’autorialità quando si parla di creazione in ambito Fashion?/ E’ etico che un marchio nato dalla visione di una stilista continui ad esistere anche dopo la sua morte o al suo abbandono delle scene?/ Non avrebbe più senso che quel percorso si esaurisse per rimanere unico invece di continuare a clonarsi secondo regole di algoritmi svalvolati e figure intercambiabili che, più o meno, reiterano la propria visione in prospettiva di un profitto sempre maggiore?/ Una cosa del genere sarebbe pensabile anche nel sistema dell’arte?/ Come riuscire a valorizzare i percorsi locali: artigiane, piccole imprese, progetti di riuso e riciclo a km 0?/ Siamo in grado di acquistare meno ma meglio, riformulando il nostro rapporto con l'idea di ‘futuro’?

Anche essendo d’accordo che il distillato finale del concetto ‘moda’ è ‘attitudine’, forse possiamo placare i nostri mostri interiori di insicurezza, trovare un terreno di dialogo comune e divertirci ad esprimere e sperimentare strade meno omologate. Alcuni pensieri della formidabile curatrice italiana Francesca Alinovi [1948-1983] dal libro ‘L’arte mia’ (Mulino, 1984): “Il problema è, in fondo, quello dell'identità, che un tempo bisognava ricostruire in ogni modo, pena il rischio di essere bollati di schizofrenia, o peggio ancora di mancanza di rigore, eteronomia, referenzialità, metaforicità, e così via. Oggi l’unica identità possibile è quella che si attinge di volta in volta abbandonandosi al libero flusso degli eventi, disperdendosi con le onde elettromagnetiche nel cosmo, prolungandosi indefinitamente sulla superficie del pianeta assieme ai propri progetti. L'unica forma di identità possibile è, in altre parole, il riconoscimento della sua perdita irreversibile; e di conseguenza l'accettazione di lasciarsi trapassare dagli eventi e dalle cose, e insieme prolungarsi e coestendersi con essi. Essere ovunque nel mondo e avere il mondo dentro di sé”.

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